Era tutto questo Colle cinto di foltissimi boschi... La selva del Conte, piena di cerque, cerri ed altri alberi selvaggi, quale Selva sara di longitudine circa miglia due e di larghezza circa mezzo miglio per uso di pascolo così di animali bovini, come pecorini. Sulla Selva ci tiene l'Università l'azione di legnare legna verde e morte "tantum", atteso il pascolo è solo del barone. Confina con la Difesa dell'Università detta la Boccadoro..."
  "Vegetano benissimo, arrivando a forme gigantesche, le querce "cèrquele", il cerro, il leccio "ilice" (elce, dal lat. Elice(m} 0 ilice(m}}, è abbastanza comune il pioppo "chiuppe", diffusissimo l'olmo "ulme"; in alcune località (marina} vegeta il frassino, presso i corsi d'acqua il salice "salce" e il vinchio.... Nel 1876/1884 con il sindaco dott. Giulio Castelnuovo il bosco Boccadoro fu dissodato e messo a coltura... Dissodati quasi tutti i boschi, che popolavano queste nostre terre, esse furono messe a coltura e dettero raccolti ubertosi" (da "Serracapriola "di A. de Luca)

 Gli artigiani del legno
 I combustibili in uso per cucinare e per scaldarsi erano la legna e il carbone. Il mestiere del carbonaio "l'arte du chèrvunére" consisteva nel carbonizzare la legna ottenuta con gli alberi dei nostri boschi. Più famiglie di carbonai, di stampo patriarcale, pervennero a Serracapriola da Capracotta nel primo Novecento: Giuliani Filomeno, i fratelli Carmine, Geremia e Gianpiero Santilli, Carnevale Costantino.
 Gaetano, figlio di quest'ultimo carbonaio, impiantò un'industria boschiva, dove i figli, Costantino, Giuseppe, Sebastiano e Pasquale, cooperavano, anche da sposati, abitando sotto lo stesso tetto. Una famiglia unita dove vigeva il motto "Uno per tutti tutti per uno". La ditta "Carnevale" iniziava l'attività acquistando il prodotto per uso combustibile, previa una visita personale di un componente della famiglia nel bosco ceduo (sottoposto per la rinnovazione a tagli periodici) in questione e una stima del suo valore. Dopo di che, trovato l'accordo con il proprietario del bosco, che è un bene demaniale controllato dal Corpo Forestale dello Stato, iniziava il lavoro di trasformazione della legna ad uso combustibile.

 I taglialegna
 I "spacchèléne" venivano assunti a Chieuti e a Capracotta. Lavoravano in squadra e venivano pagati a cottimo per non far rallentare il ritmo del lavoro. Dopo aver segnato un albero, nell'abbatterlo, c'erano due modi di operare per farlo cadere. Prima però ci si premuniva a sfrondare la chioma con la roncola "runge" o con l'accetta "ccettéll", per facilitare così la caduta senza danneggiare le piante circostanti.
 Il taglialegna procedeva alla scalzatura che consisteva nell'assottigliare la base dell'albero per segarla poi più facilmente o ad intaccarla con la scure a lama, lunga asimmetrica da una parte "ccétt", dal lato opposto altri due boscaioli azionavano una lunga sega "u strungone". Man mano che procedeva il lavoro, per evitare l'inceppamento della lama, s'inserivano dei cunei "zéppe". Quando si arrivava con il taglio vicino all'intaccatura, l'albero cadeva dalla parte opposta dei segantini. Una volta abbattuto l'albero, si segavano i rami della lunghezza di circa un metro per ottenere cataste di legno dette"canne". I rami più sottili venivano utilizzati per fare fascine "fasce de cépp".
 Questo lavoro si eseguiva d'inverno quando la linfa era scesa nel tronco. Questi uomini vivevano, respiravano e rispettavano la natura. Sembra un paradosso per chi abbatte degli alberi per vivere. Ma proprio per questo si guardavano bene dal distruggerli irrazionalmente, curando il bosco ceduo con tagli a turni da 3 a 18 anni, senza toccare gli alberi di alto fusto.

 I mulattieri
 Dopo l'abbattimento delle piante operavano i mulattieri che venivano da Chieuti come Donato Florio e Pietro Leone o da Capracotta e Monte Sant'Angelo. Essi trasportavano la legna appezzata secondo i suggerimenti dati dai carbonai. Erano molto abili nell'accatastarla secondo l'uso: i rami o pezzi di legno da convertire in carbone lunghi 75 cm. circa venivano separati in base alla natura del legno e alla loro grossezza. Il lavoro proseguiva nell'accatastare legna grossa per il carhone, nel legare le fascine per i forni del pane e i fascinotti di frasche per le fornaci di mattoni, nella raccolta della sterpaglia (rovi, ginepro, spine) che serviva per fare la brace.

 I carbonai
 I carbonai, provenienti da Cervinara e da San Martino Valle Caudina(AV) assicuravano alla ditta Carnevale l'approvvigionamento del prodotto mediante la produzione della carhonella "chèrvunéll", ottenuta dalla combustione dei rami e del carbone scaturito da quella dei tronchi "chètozz". Dalla faccia nera, riscattata dalla luminosità di occhi sinceri e denti bianchissimi, questi uomini, quasi nomadi, stavano nel bosco da ottobre a maggio. Si cominciava con lo scegliere un terreno piano e solido per stabilirvi "la piazza" o "area del fornello". Si costruiva così la carboniera impostando il camino che consisteva nel costruire un condotto verticale ai cui lati venivano accatastati legni di leccio opportunamente tagliati ed accostati. Al termine si copriva tutta la superficie esterna prima con foglie poi con terra per impedire che l'aria vi penetrasse. Sulla sommità diquesto enorme tronco di cono si appiccava il fuoco che divorava a poco a poco la legna fino alla base della carboniera. Due persone, giorno e notte, controllavano con bastoni il procedcre della combustione, sostituendo la terra che si staccava dalle pareti del cono. Questo duro lavoro durava ininterrottamente giorno e notte per due o tre settimane. Terminata la comhustione si lasciava raffreddare la massa di carbone per sette giorni circa. Il carbone e la carbonella, in sacchi di iuta, venivano caricati sui carretti e consegnati alIa ditta Carnevale che vendeva il prodotto oltre che a Serracapriola anche nei paesi limitrofi. I carhonai, intanto, provvedevano a costruire una nuova carboniera.
 Oggi, Pasquale Camevale e il figlio Antonio continuano questa attività con un taglialegna di Sannicandro Garganico e qualche operaio serrano. Oltre alla legna, vendono bombole di gas liquido, che ha sostituito, come comhustihile, il carbone e la carbonella.

 Un patrimonio da salvare
 Gli antichi boschi che popolavano la nostra collina sono ormai scomparsi sia per i tagli indiscriminati attuati per l'uso del legname, senza ricorrere ad operazioni di rimboschimento, sia per il disboscamento fatto allo scopo di ampliare lo spazio per i coltivi. Negli anni 60, l'amministrazione Primiano Magnocavallo con cantieri di lavoro forestale rimboscò Colle S. Barbara, parte del giro esterno occidentale e le zone Porta Bianchine e Fornaci; mentre il Corpo Forestale dello Stato pensò a rimboschire con pini domestici e italicus la fascia costiera adrialica da Saccione fino a Longara. In seguito, con il boom economico e il proliferare delle macchine agricole ci fu lo scempio di ogni forma di vegetazione spontanea e lo sradicamento di querce secolari ai lati dei sentieri di campagna. Nel 1993, grazie anche ai terreni dati in geslione al comune da StanisIao Ricci, Maria de Marzio, Manes, dai fratelli Castelnuovo e Orlando, l'amministrazione Mascolo ha realizzato circa sei ettari di rimboschimento e ultimamente l'impianto a pini del viale del cimitero, con il fattivo contributo dell'assessore Antonio Orlando, del geometra Giuseppe D'Onofrio e degli altri amhientalisti locali.
 La macchia mediterranea sempre più ridotta; le pinete delle "Marinelle" e della Longara, in lenta ripresa, con i nuovi impianti voluti dalla regione, dopo gli incendi dolosi del luglio 1993; il rudere dell'Abbazia di Sant'Agata; la zona archeologica di Chiantinelle; i boschetti cedui di Canale Capod'Acqua, della Monacesca, della Ciavatta; gli olmi e le ultime querce di San Leucio, di Pisciarello, di Mezzzanotte, di Montesecco, della Posta Pettulli; il bosco di Castellaccio, devastato con le ruspe fino alle sponde dei canaloni; la bellissima masseria di Tronco con vegetazione spontanea; il centro storico del paese, e, ciliegina sulla torta, Palazzo Arranga da adibire anche a biblioteca museo dopo il reslauro (progetto Iannuzzi): costituiscono un patrimonio d'interesse storico-ambientale da salvare, prima che sia troppo tardi. A questo ci ha pensato l'Amminislrazione comunale, che il 27/2/1997 ha regolarizzato la convenzione con le firme del sindaco e dei progettisti (prof.ing. PasquaIe daI Sasso, i dott. arch. Nazareno Gabrielli e Gianfranco di Sabato, geom. Luigi Manes), circa il progetto del 1989 "Progetto integrato per la valorizzazione dei beni culturali ambientali". Un progetto faraonico di difficile totale realizzazione; ma, a parte che si chiede 100 per avere almeno 10, è l'unica via da seguire per salvare capre e cavoli: ambiente e nuovi posli di lavoro.


Aggiornamento sui boschi in data 20/3/2004
Nella superficie boscata, di circa 600 ettari, e nella campagna del comune di Serracapriola, predomina ancora la quercia, mentre sul litorale adriatico il pino.
Il bosco ceduo di specie quercine “Quercus pubescens”, comunemente detta Roverella, chiamato S.Leucio-Monacesca, di proprietà degli eredi Cacchione, si estende per circa 70 ettari, ma è degradato da incendi e dalle scarse precipitazioni piovose. Il bosco ceduo di Canale Capo D’Acqua, fortemente degradato, di proprietà privata, ha 40 ettari circa di specie Quercus pubescens, Quercus ilex, Roverella e leccio. Il bosco di Castellaccio, una volta incantevole oasi di fauna e flora, di proprietà privata, è ridotto a pochi ettari fortemente degradati dal disboscamento selvaggio. La contrada, di 2500 ettari, è zona di ripopolamento faunistico-venatorio e cattura. Anche nelle contrade Maddalena, Tronco, Avena, Vallone della Morgia, Pettulli, ci sono ancora piccole zone boscate.
Sul litorale adriatico si trovano due boschi di proprietà privata: il primo, denominato Longara, d’alto fusto di Pino D’Aleppo “Pinus halepensis”, si estende per 40 ettari nei pressi della foce del fiume Fortore, spesso devastato da incendi, e il secondo, “Le Martinelle-Torre mozza”, ad alto fusto, di Pino d’ Aleppo e Eucaliptus di origine artificiale, di circa 100 ettari.