L'estate del 1567 fu particolarmente "calda" per alcuni centri costieri dell'Adriatico che ebbero il loro gran da fare con le sanguinose scorribande della "tracia luna".
 Alla foce del fiume Fortore, "pied-à-terre" marittimo della terra serrana, attraccò uno sciame di galee turche (centocinquanta, secondo una tradizione radicata). Da quella navi sbarcò una schiera vigorosa di armigeri che s'immersero nella luminosa campagna estiva per razziare e devastare.
 Indisturbate, le milizie ottomane raggiunsero il centro fortificato di Santagata, quarantotto "stadi" oltre il Fortore. Ai loro occhi avidi di bottino, tutto apparve quieto, abbandonato. Per la sua capitolazione non fu necessario far prillare nemmeno una scimitarra. Dopo il facile saccheggio, Santagata fu "abbrusciata". Le fiamme ardenti ed i fumi appastati della sua agonia allertarono le vicine Università ed i frati di Tremiti.
 Orizzonti di altre razzie spinsero gli ottomani a Serracapriola. Il loro attacco, sferrato il 4 Agosto 1567, s'infranse contro una città "fortemente murata", saldamente difesa da "gente terrazzana... la quale cobattette valorosamente co' Turchi, de' quali morsero molti..." Gli assalitori superstiti, disorientati dalla "reception" serrana, "veggendo che perdeano e nulla acquistavano", diedero Serracapriola alle fiamme e "si ritrassero" per tornare all'armata, ormeggiata alla portuosa fiumara.
 Dopo la ritirata ottomana i serrani, turbinando le armi nello show della vittoria, mozzarono le teste dei nemici che avevano guadagnato l'eterno riposo in combattimento. Compiuta la missione, issarono quei capi orfani sulle picche. Li lasciarono così, "parecchi anni... attorno alle mura" che serravano Serracapriola.
 Sulla via del ritorno all'Adriatico, gli infedeli transitarono "per il monastero dei Cappuccini". Ne misero a soqquadro l'annessa chiesetta ancora olezzante di nuovo (1536). Un "musulmano... salito sull' altare maggiore" non sapendo resistere all'insana iconoclastia che gli lievitava nel petto, "cominciò a scagliare colpi di scimitarra in faccia alla Vergine SS... ma l'ira di Dio lo colpì e il turco cadde dall'altare, morto".. Ai turchi increduli, il fatto "parve miracolo"; "colpiti da terrore", pur ricchi di magro bottino, essi subito si diedero a precipitosa fuga". Nel prendere la via del ritorno, imboccarono la direttissima per la marina serrana lasciando immune dalle loro malefatte l'abitato di Chieuti. Nell'accaduto i chieutini lessero il disegno divino del loro salvamento dal quale trae motivo l'annuale pellegrinaggio di ringraziamento alla Madonna del Santuario Cappuccino Maria SS. Delle Grazie di Serracapriola (2 Luglio).
 Mentre nell'hinterland serrano, si consumava la guerriglia distruttiva, la costa fortorina venne battuta da un "levante fresco". La sua intensità fece temere che le imbarcazioni turche là ormeggiate potessero scarrocciare "rompendosi una galera con l'altra". I pascià comandanti, Pialy (generale del mare) e Mustafà (generale di terra), guidarono l'armata navale verso il mare aperto, con rotta Tremiti, disertando in siffatto modo il "rendez-vous" con i soldati che scorrazzavano la terra ferma. Costoro, "gionti innanzi l'alba al Fortore" (5 agosto 1567) trovarono l'embarcadero popolato di due sole galee. Giacevano arenate e vuote di marinai; ma rifornite di armi, di munizioni e di viveri. L'amara realtà lasciò scoperti ai rischi di una terra ostile quei soldati reduci dalla funesta "busca". Per loro, l'unico life-boat era il "cavallo di San Francesco". Dai due legni insabbiati ed abbandonati attinsero rapidamente biscotti ed altre vettovaglie. E, pur provati dal tour de force, "pedibus calcantibus", scapparono serrati verso "l'imbuto", dipendenza tremitese sul lago Varano.
 Il 5 agosto 1567 la flotta turca salpata dal Fortore assalì le Tremiti. La resistenza agli attacchi nemici opposta dai monaci isolani, durò tre giorni (5-8 Agosto). Alla fine vinse, aiutata dalla dea bendata. Mentre questo successo accresceva in Italia la notorietà di quel cenobio, le prime rughe, allergiche ad ogni lifting tentato, scavarono il volto della sua economia generale che decadeva rapidamente.
 Lo stato di salute dei possedimenti dell'abbazia, aggiogati al carro di un debito cinico e senza scrupoli, ebbe uno scossone. In Ramitelli le coltivazioni subirono l'aggressione dell'incolto; l'azienda Sant'Agata non era da meno: il bestiame pasceva sterpaglia. Nei locali della pieve (1556) più che grani di fede erano ammassati grani di grano, come un granario. Tant'è che le superiorità religiose ordinarono all'abate isolano di non riporvi più i cereali (imponitur abbati tremitano ne amplius reponat granum in ecclesia S. Agathe). Nella Chiesa non veniva testimoniato più nemmeno lo stesso Gesù Cristo. Le funzioni e gli esercizi di fede che ritmavano la liturgia quotidiana erano precipitati nell'oblio. All'aroma intenso dell'incenso che fumigava dai turiboli si era sostituito l'afrore dei frumenti che vi erano ammassati. Al vicario di Sant'Agata, per ovviare a tale abbandono, venne comandato di ripristinare nella chiesa il "Sacramentum Eucharistie" (Imponitur vicario S. Agathe ut teneat sacramentum eucharistie in dicta ecclesia) . Proprio il furto di sei "carra" di quel grano, fu il movente dell'assassinio (1563) del castellano di Sant' Agata, commesso da G. Maria di Riviera di Chioggia. Nella dissacrazione generale della chiesa, il corpo del beato Tobia da Como lì conservato, era esposto ai rischi dell'idolatria. Le sue reliquie di poi vennero traslate da Sant'Agata in Santa Maria di Tremiti (navata destra). Lì, ancora oggi, sono oggetto di culto locale pur se la Chiesa ufficiale non ha mai riconosciuto al comense particolari virtù. L' urna contenente i suoi resti mortali venne rifatta nel 1842 e, nuovamente, nel 1886, con il consenso del vescovo di Larino. Il reliquiario di vetro di quest'ultima riforma, di sapore votivo, fu edificato dagli isolani tremitesi "liberati dai pericoli del mare".
 In Tremiti vive ancora il ricordo di Agata, vergine e martire, scolpita nella lunetta che correda il portale rinascimentale della chiesa di Santa Maria, nell'isola di San Nicola. La santa è raffigurata accanto a Santa Monica, mentre Sant'Agostino dà la regola ai monaci (opera di Andrea Alessi da Durazzo, notizie dal 1448; morto a Spalato intorno al 1504 e Giovanni Fiorentino da Firenze, XV-XVIsec.).
 Lo stato del malessere cronico di Tremiti e dei monaci che l'abitavano, si evince dalla relazione redatta nel 1638 dal canonico Giovanni Battista da Benevento che definì l'isola "un nudo scoglio manchevole di ogni bene, abondante d'ogni miseria", privo di medici e di farmaci e con "aria persecutrice. Il costo della vita era elevato; in altri luoghi "un huomo vive con due giulii, in Tremiti non... bastano otto, colpa ch'ivi non trasse cos'alcuna, ma il tutto viene da terra 18 o 20 miglia distante" e che , talora "la barca che vi porta da mangiare sta un mese intero a comparire". Le parole, pur se intrise di esagerazione probabile, fotografavano, certamente, uno squarcio di realtà. La stessa demografia isolana subì un depauperamento, conseguenza del terremoto del 1627 (VIII sc. MCS) per lo quale l'arcipelago patì "grandissimamente.. nelle fabriche e nelle persone...".
 Nel 1638 il convento dell'isola ospitava 30 monaci (contro i 96 canonici e conversi del 1556); il presidio armato era "forte" di " vintitreé soldati di diversi paesi, non compreso il luogotenente Mutio da San severo" (nel secolo precedente i militari erano 150).
 Dopo vicende amare, mescolate di tentativi astuti di alienare le isole (1672) da parte dei superiori della Congregazione, il sovrano Carlo II (1661-1700), nel gennaio 1676, inviò a Tremiti 25 fanti spagnoli che abitarono la fortezza di San Nicola.
 La presenza nelle isole di quel presidio militare, spinse i Padri Lateranensi ad abbandonare il monastero. Lo ebbero in affidamento un canonico e quattro frati laici.
 I monaci "fuggiaschi" traghettarono a Serracapriola, scelta perchè amata. Non solo. Il paese, cicatrizzatasi l'emozione del terribile sisma che lo aveva sconquassato nel 1627 offriva, nel nuovo e nel ricostruito urbanesimo, buoni standard di vita quotidiana. I religiosi andarono ad abitare una loro casona (ai margini del quartiere denominato "Terranova") circondata di geografia tutt' altro che solitaria. Quella loro abitazione, fatta di 9 soprani e 5 fondaci (i funnech'), era dotata anche di cantina, cisterna nel portone e di scuderia. Era anche panoramica; da due balconi e quattro finestre, l'occhio poteva navigare verso oriente. Altrettante aperture lasciavano catturare il panorama occidentale. Il palazzo (alto palmi 66, largo palmi 24 e lungo palmi 26) oggi si affaccia sullo slargo di Via Cairoli che nella precedente toponomastica cittadina era indicata dapprima come "Covatta" (già ante 1753) e, successivamente (già nel 1867) "Strada Vallone". Dal terrazzo, orlato di archetti pensili e con campo visivo a 360°, i monaci lasciavano partire anelli di fumo o lampi di fuoco. Era l'intervoce per colloquiare al bisogno, night and day, con il mondo acquatico di Tremiti e con quello campagnolo di Santagata.
 "Avversata non poco dal governo vicereale", avversata da re Carlo III di Borbone (1734-1759) ostile alla "potenza economica e politica del clero", l'abbazia di Tremiti fu avversata con l'incuria anche dagli stessi canonici. Costoro, che re Ferdinando IV di Borbone aveva declassato a semplici custodi della chiesa, una volta transitati in terra ferma si interessarono sempre meno della loro casa isolana. L' abbazia, perduto l'antico smalto, precipitò nell'agonia del malato terminale.
 Nel 1782 fu soppressa.
 Nell' ambiente dandy della curia di "NapoliCapitale", una vulgata denigratoria accompagnò il requiem ufficiale dell'abbazia di Tremiti. Nella circostanza il trasferimento dei PP. Lateranensi a Serracapriola, venne denunziato come prova del loro malgoverno isolano:"l'abate gettato che ebbe il "bastone del comando ritirandosi a Serracapriola, gettò ancora il pastorale," "strumento inutile dove più monaci non erano, e perciò lasciando le vecchie" "fabbriche allo più sventurato de' suoi Canonici Regolari, assistito solamente" "da quattro conversi, non pensò che a godersi una rendita di venti o" "ventiquattromila ducati l' anno nell'amena terra di Serracapriola, dove piantò" "la sua dimora."
 I possessi tremitesi, dal 26 ottobre 1737 di "regio patronato", ulteriormente "rinfrescato" il 2 giugno 1780 ed il 15 gennaio 1781, vennero incamerati dal Demanio e affidati ad un amministratore di nomina regia.
 Il primo a ricoprire quell'incarico fu Antonio Magnacca da Serracapriola. Serrano era anche Michele Andrea de Luca, Capitano del Genio (morto nell'anno1817) che si occupò delle "riparazioni fatte al forte" delle isole Tremiti.
 Nella luce di un giorno avaro di storia per la storia, i padri diedero l'addio a Serracapriola. Non sappiamo se con le ciglia asciutte. A Serracapriola, per quel che si sa, non ebbero volto, ma furono uomini. Furono popolo e furono strade. Quel loro "sì gran palagio" paesano, entrato nella disponibilità del regio fisco, venne venduto (procura Michele Lopez Gonzaga - Napoli) per ducati 2.816.
 La casa aprì il suo silenzio a Luigi e Pasquale d'Uva, esponenti di facoltoso linguaggio serrano (nei primi decenni dell' Ottocento, Michelangelo d'Uva era "l'idolo d'oro" di Serracapriola). Con quel casato essa ritornò viva e si riempì d'anni.