Già nella prima metà dell’XI secolo l’abbazia benedettina di S. Maria di Tremiti acquisì buona parte dei suoi vasti possedimenti terrieri, che si estendevano inizialmente lungo le coste che fronteggiano le isole e che poi si ampliarono giungendo dal Gargano fino all’Abruzzo.
     Questa relazione, che vuol rappresentare una base di partenza per una futura e più ampia trattazione storico-topografica dell’argomento, riguarda essenzialmente alcuni centri abbandonati che sorgevano nei tenimenti dell'abbazia e che attualmente sono compresi nell’agro di Serracapriola e di Chieuti, nella parte settentrionale della provincia di Foggia. La zona in esame è situata tra.il fiume Fortore ed il torrente Saccione, che separa attualmente la Puglia dal Molise. In questo tratto, confinavano direttamente col mare i territori di Civita a Mare e di Vena Maggiore; all’interno erano Vena de Causa, S. Leucio e Pleutum.

     Il primo studioso che si è interessato degli insediamenti scomparsi di questa zona è mons. Tria, vescovo di Larino, nella prima metà del ’700. Nella cartina geografica annessa alla sua opera, i suddetti abitati sono segnati con una discreta approssimazione, ma la loro distanza da Serracapriola e da Chieuti non corrisponde a quella indicata nel testo, che appare per lo più superiore al reale e riferita verosimilmente a distanze stradali.
     Per una corretta impostazione topografica del problema, dobbiamo premettere che nell’XI secolo il corso terminale del Fortore era situato più a nord rispetto a quello odierno; le fotografie aeree mostrano chiaramente tale percorso, che costituiva il prolungamento naturale del tratto che si dirige verso nord-ovest fra le contrade Coda di Volpe e Piana di Paradiso. Il fiume sfiorava poi il declivio meridionale di Colle d’Arena e sfociava in mare in contrada Brecciara, dove una serie di alture ne delimitava la riva sinistra, formando un buon approdo. Sul terreno si nota ancora la depressione corrispondente al vecchio letto del fiume, mentre nelle carte topografiche dell’I.G.M. si possono osservare i contorni dell’antica foce e la progressiva regressione della linea di spiaggia verso la contrada Marinelle, dove la Torre Mozza indica probabilmente il limite della costa verso il XVI secolo.
     Questa era la foce sulla quale era situata Civita a Mare, di cui rimane il toponimo presso la vicina masseria della Brecciara, circa 13 Km. a N.N.W. di Serracapriola. L'abitato era all’estremità di un piccolo promontorio, delimitato ad oriente dal Fortore e ad occidente da un torrentello. Il sito, isolato da cave di pietrisco, si presenta attualmente come una ripida collinetta alta circa 15 mt., racchiusa tra la linea ferroviaria e la Strada Statale N. 16, il cui percorso in questo punto coincide con il fossato che difendeva l’insediamento verso l’entroterra. Sulla spianata soprastante, in un’area di mt. 180x230, si trovano numerosi reperti dai quali si può dedurre che Civita a Mare deve essere sorta nell'alto medioevo, nello stesso luogo dove era un villaggio dell’età del Bronzo risalente al II millennio a.C.
     Tra il 1041 ed il 1045 il conte di Larino, Tesselgardo, dona all’abbazia di Tremiti « civitatem que vocarur Guadia ». Guadìa è il nome longobardo di Civita a Mare e nel documento di donazione vengono precisati i confini del suo territorio, che iniziava dalla foce del Fortore e seguiva verso occidente la riva del mare fino allo stagno « Fantine », toponimo ancora esistente; poi risaliva il vallone « de Vena de Causa», corrispondente al canale Capo d'Acqua, giungendo al «castellaro vetere de Vena de Causa», un antico insediamento fortificato che sorgeva presso una diramazione del suddetto vallone. Il confine passava poi per il « casale Genistrino » e per il colle «Petri tormento » (coppa S. Rocco?); giungeva ad un mulino, forse alimentato dal canale Fontanelle, e toccava un ponte antico sul Fortore, seguendo infine il fiume sino alla foce.
     Il ponte, certamente di epoca romana, poteva trovarsi lungo una strada che la fotografia aerea rivela a sud di S. Agata, con andamento quasi perpendicolare al fiume in direzione di Ripalta. Ma anche in questa zona il percorso del Fortore ha subito delle variazioni, così che la traccia tortuosa di un antico alveo sul lato occidentale della vallata coincide con il confine fra il territorio di Lesina e quello di Serracapriola, ma dista un chilometro e mezzo dall’odierno corso del fiume.
     L’agro di Civita a Mare appare delimitato a nord dal mare e ad est dal Fortore, oltre il quale è il territorio di Ripalta, altro centro medievale fortificato; a sud e sud-ovest confina con Vena de Causa e ad ovest con Vena Maggiore.
     Il conte Tesselgardo nella sua donazione pone alcune condizioni, tra cui l’obbligo degli abitanti della zona di aiutarlo in caso di conflitto « contra Grecos, vel contra Apulos et finitimas civitates », cioè contro i Bizantini, i Pugliesi e le città vicine, forse anche alcune situate a sinistra del Fortore e che erano in ‘possesso di altre famiglie longobarde, probabilmente in contrasto tra di loro; ciò spiegherebbe perché Tesselgardo si riserva la proprietà del porto alla foce del Fortore, forse unico scalo sull’Adriatico di cui possa disporre liberamente.
     E’ un momento politico delicato; alla minacciosa riconquista bizantina della regione si aggiunge il pericolo, ormai imminente, delle incursioni dei Normanni, i quali, dopo la battaglia di Civitate del giugno 1053 dilagheranno oltre il limes bizantino-longobardo, rafforzato solo pochi decenni prima dal catapano Basilio Bojoannes. Guadia, o Civita a Mare, rappresenta l’estremo baluardo settentrionale longobardo lungo tale confine, a guardia del porto e di un passaggio sul Fortore; non a caso nel 1017 si era svolta proprio di fronte alla città, presso il Colle d’Arena (Arenola), che allora era sulla riva destra del fiume, una battaglia nella quale le truppe di Melo da Bari avevano sconfitto i Bizantini.
     In tale prospettiva, appare evidente il motivo che spinge gli ultimi conti longobardi del Larinate a disfarsi dei loro possedimenti prossimi al confine pugliese, vendendoli o donandoli alla potente abbazia di Tremiti ed assicurandosi, così, oltre ad una preziosa protezione politica, un « diaframma » tra il potenziale nemico e gli altri territori situati più ad occidente. Ma, nella precaria situazione seguita alla conquista normanna della zona, c’è chi approfitta del momento opportuno per impadronirsi delle terre dell’abbazia; così, solo dopo il 1075 un certo Guglielmo, detto Buscella, restituisce ai monaci tremitensi Civita a Mare e Vena de Causa, ingiustamente tenuti dalla moglie. Il relativo documento contiene un’accurata descrizione dei confini complessivi dei due abitati e, come vedremo, contribuisce a risolvere alcuni problemi topografici sull’argomento.
     Perduta la sua importanza di centro militare di confine e venuto meno il suo porto, per l’insabbiamento e lo spostamento verso est della foce del Fortore, Civita a Mare decade notevolmente. Il suo nome compare nelle varie conferme dei beni e dei privilegi dell’abbazia di Tremiti fin verso la metà del ‘200. Da un documento dell’archivio episcopale di Larino apprendiamo che nel 1571 non vi è più l’arcipretura di Civita a Mare, mancando evidentemente anche una popolazione rurale sparsa. ‘
     Ormai, il centro direttivo e religioso di questo tenimento tremitese si è trasferito nel monastero di S. Agata, a meno di 3 Km. dal paese abbandonato ma in una posizione più sicura. Nel giugno del 1420 i Canonici di Tremiti ottengono il riconoscimento del possesso di S. Agata e potenziano le culture e l’allevamento del bestiame; ma, nell’agosto del 1567 il monastero viene saccheggiato ed incendiato dai Turchi e nel luglio del 1627 rimane danneggiato per un forte terremoto.
     Dopo tali vicissitudini, gli edifizi vengono restaurati e fortificati, ma con strutture in laterizio ridotte all’indispensabile, con scarsi elementi decorativi e reimpiego di materiali più antichi. I ruderi del monastero, che appare composto da due parti distinte riunite in un grande complesso, si trovano all'estremità orientale di un colle (q. 63), alle cui pendici è un'antica fontana. L’ingresso si apre a sud, tra due corpi avanzati a guisa di torrioni, e immette in un vasto cortile attorniato da locali di servizio con soprastanti abitazioni del personale; di qui, per un portale sul lato orientale, si entra nel monastero vero e proprio, con chiostro e loggiato su due lati. Di fronte a questo ingresso interno è la chiesa dedicata a S. Agata, ora in completa rovina, con un ambiente retrostante destinato a sacello funerario; in un antico altare di questa chiesa è stato rinvenuto un reliquiario dell’XI secolo, con un’epigrafe che ricorda Eimeradus, vescovo di Dragonara, il quale nel 1045 aveva consacrato la nuova chiesa di S. Maria a Mare, a Tremiti.
     Pochi anni dopo la donazione di Civita a Mare, il conte Traselgardo, figlio di Tesselgardo, concede ai monaci di Tremiti un « castellum… secus fluvium Fertore in finibus Larinensium, quod Vena de Causa clamatur » . Il Tria pone nella sua cartina geografica questo insediamento sul lato orientale di un corso d’acqua che corrisponde al canale Capo d’Acqua e nel testo precisa che Vena de Causa si trovava nella Difesa S. Leonardo, a quattro miglia da Chieuti, verso il casale di S. Agata. Tale distanza ci porterebbe molto vicini alla costa, verso la masseria Bufalara, nei cui pressi appare nelle moderne carte topografiche il toponimo «C. S. Leonardo». In realtà, nella zona suddetta non vi è traccia di insediamenti medievali ed il toponimo si riferisce ad uno dei poderi della Riforma Fondiaria, contrassegnati tutti con nomi di santi che hanno sconvolto la toponomastica originaria.
     Per localizzare l’abitato, abbiamo confrontato le singole descrizioni dei confini di Vena de Causa e di Civita a Mare con quella dei due tenimenti riuniti, che compare nell’atto di restituzione a Tremiti da parte di Buscella. Dai documenti appare evidente che il sito si trovava presso una diramazione occidentale del canale Capo d’Acqua, chiamata vallone «Formili ». L’unica zona che corrisponde a tale descrizione è quasi all’altezza della masseria Jaccio di Volpe, 5 Km. a nord-est di Chieuti, e proprio sopra la biforcazione del canale abbiamo rinvenuto i resti di un centro medievale di dimensioni maggiori di Civita a Mare.
     E’ un’altura (q. 126), chiamata localmente Terra Vecchia, delimitata dalla confluenza dei valloni e, verso sud, da un fossato artificiale che la isola dal pianoro retrostante. La conferma che si tratta effettivamente del nostro abitato ci viene dal nome di una sorgente che si riversa nel sottostante canale e che viene chiamata Fontana di Valle di Cosa.
     Dal vallone «Formili » il territorio di Vena de Causa giungeva alla « terram Bonizi », che dovrebbe corrispondere alla contrada Campo di Bove, attraversata dalla strada che congiungeva l'abitato a Serracapriola; questo tratto forma oggi il limite orientale dell’agro di Chieuti. Il confine piegava poi Verso oriente per «Acquam vivam », una sorgente che probabilmente alimentava il canale Fontanelle; di qui, per una via Carrara, giungeva in « Vena Silvani», un’a1tra sorgente situata più a valle. Infine, raggiungeva il Fortore e lo seguiva fino al ponte antico, al limite col territorio di Civita a Mare.
     Adiacenti alla parte meridionale del territorio di Vena de Causa c’erano le terre di S. Pietro in Puliano, una chiesa acquisita dall’abbazia di Tremiti verso il 1056. Il tenimento di S. Pietro, con le sue vigne, giungeva a sud al « vallone de lo Romito» (canale dell’Eremita), al confine col territorio di S. Leuclo, e ad una sua diramazione verso nord-ovest « per vallem Colmartello » (Colle Martello), fino ad una strada per Serracapriola, dalla quale tornava al confine con Vena de Causa.
     Entro tale circuito vi è un’altura (q. 161) denominata Il Convento, 6 Km. a N.N.E. di Serracapriola 15, sulla quale si trovano reperti medievali riferibili ad un grosso edificio crollato, che dovrebbe corrispondere alla chiesa di S. Pietro.
     Altra chiesa appartenuta a Tremiti è quella di S. Martino, sita in contrada «Martulano», tra Vena de Causa e Civita a Mare, acquistata nel 1048.
     Di Vena de Causa, detta anche Venacquosa, abbiamo notizie fino al XIV secolo 17 e dai documenti appare come l’abitato più importante tra quelli soggetti a Tremiti. Nel 1141 vi troviamo un giudice Guido e un arciprete Giovanni (già ricordato nel 1136); un altro arciprete compare in un documento della fine del 1236. Pochi mesi dopo, il vescovo di Dragonara, Giovanni, incaricato da papa Gregorio IX di indagare sulla condotta di alcuni monaci di Tremiti, li cita a comparire in Vena de Causa.
     Da un inventario di beni di pertinenza della Curia imperiale di Federico II, riguardante case, orti ed un mulino in Vena de Causa, rileviamo che verso la metà del ’200 la carica di Baiulo è affidata a Robbertus de Basto (Vasto).
     Negli elenchi delle tassazioni di età angioina, del 1300 e del 1320, troviamo il nostro abitato con più di 9 once d’oro di imposta ordinaria, oltre a quella straordinaria « pro depopulatione Lucerie» applicata a numerosi centri di Capitanata per sopperire alle mancate entrate fiscali di Lucera, a causa della distruzione della colonia saracena. Per un confronto con i paesi vicini, osserviamo che la tassazione ordinaria di S. Leucio è di poco superiore (10 once), ma quella di Pleutum e di Vena Maggiore è di sole 2 once, anche se quest'ultimo abitato è costretto a pagare anche una parte delle tasse alleviate a S. Nicandro, Vipera e S. Marco la Catola. Non compare, invece, Civita a Mate, evidentemente già disabitata.
     Ad ovest di Vena de Causa si estendeva il territorio di Vena Maggiore, compreso tra il canale Capo d’Acqua ed il torrente Saccione; a nord giungeva al mare, mentre a sud confinava col tenimento di Pleutum, forse nel tratto fra il canale della Taverna e la contrada Passo di Monaco. L’abitato era situato in contrada Mezzarazza, come giustamente indica il Tria, ma non a 4 miglia bensì a circa 5 Km. da Chieuti, verso N.N.E.; i suoi resti formano un’altura (q. 128) difesa da un fossato, alla confluenza del canale del Grottone con quello dell’Inferno. Poco a valle del sito, sul lato orientale, sgorga la sorgente dalla quale è derivato il nome del paese.
     In una donazione del marchese Malfrit, figlio del conte Tesselgardo di Larino, all’abbazia di Tremiti, redatta tra il 10551 ed il 1056, è indicata la chiesa di S. Maria in Vena Maggiore e quella di S. Giovanni Battista fuori deIl’abitato. Pochi anni dopo viene donata la chiesa di S. Andrea Apostolo « in loco ubi Silpoli vocatur » vicino al Saccione; tale chiesa, presso la quale si era formato un piccolo abitato, doveva trovarsi nei dintorni della masseria S. Andrea, 4 Km. a N.N.W. di Chieuti.
     Dalla seconda donazione risulta che un Osmundo domina, nel 1060 Ripalta e Vena Maggiore. Nel Catalogo dei Baroni troviamo che nel secolo successivo l’abitato, tenuto dalla « uxor Urselli » è feudo di due militi, portati poi a quattro; mentre in età sveva « Vitus Avalerius tener Benammaiorem, quod est pheudum unius militis ». Il paese, sede di arcipretura, all'epoca faceva parte della diocesi di Larino insieme agli altri abitati della zona e il suo nome compare nelle bolle di conferma delle prerogative di quei vescovi, rilasciate da Lucio III nel marzo 1181 e da Innocenzo IV nel settembre 1254.
     Da un documento del 1270 apprendiamo che metà del feudo di Vena Maggiore, casale distrutto dai Saraceni di Lucera, è stato concesso a Bernardo de‘ Rayno. Le notizie successive riguardano quasi unicamente i passaggi da un feudatario all’altro di un tenimento quasi disabitato.
     Come abbiamo già osservato, il territorio di Vena Maggiore confinava nella parte meridionale con quello di Pleutum, che si estendeva fra il torrente Saccione ad ovest, l’agro di S. Leucio ad est e quello di Serracapriola a sud.
     Nel giugno del 1057, Roffrit ed i suoi fratelli, figli del conte Roffrlt di Campomarino, donano all'abbazia di Tremiti alcuni beni, tra cui dei terreni in « civitate que vocalur Pleuti vetere ». I ruderi di Pleutum occupano la parte meridionale del colle di MaIchieuti (q. 193), circa 2 Km. a nord-ovest di Chieuti; il Tria, invece, scrive che « è distante da cinquanta passi in circa da Chieuti ».
     Nel sito di Pleutum, già abitato in età preistorica e protostorica, si nota appena la traccia delle mura, con due porte sul lato orientale e su quello settentrionale; aIl’estremità S.S.W. dell'insediamento ci sono i resti sepolti di una grossa costruzione, forse una rocca. Qui passava un’antica strada che dal Fortore si dirigeva verso Campomarino; tale tracciato ed altri ad esso paralleli, che le fotografie aeree mostrano perpendicolarmente al fiume, potrebbero derivare da una suddivisione agraria di età romana.
     Dalla donazione del 1057 si deduce che vi era contemporaneamente anche una « PIeuti nova », corrispondente a Chieuti, ma di quella vecchia non si conosce l'epoca deIl’abbandono ed appare difficile attribuire all’uno o all'altro sito le notizie riportate nella documentazione medievale. L’odierna Chieuti ha evitato la triste sorte dei centri vicini abbandonati, divenendo, forse già nel '400, sede di una operosa colonia albanese. '
     Nell'attuale territorio di Chieuti, su una collina (q. 216) sita Km. 4,500 ad W.S.W. del paese, sorgeva Montesecco, un piccolo centro dislocato lungo una strada che collegava Civitate con S. Martino in Pensilis. Del casale rimangono pochi reperti, particolarmente sul versante sud-ovest della collina.
     Ad ovest di Chieuti, in contrada Bivento (q. 116), c’era il monastero di S. Giovanni Pleuti (o del Vento), sorto in seguito ad una donazione di un certo Mattiolo all’abbazia di S. Maria di Pulsano, presso Monte S. Angelo; ricordato per la prima volta nel 1177, se ne ha notizia fino al secolo seguente. Nel sito della chiesa di S. Giovanni sorge la masseria Bivento, che ne conserva in parte la struttura a pianta basilicale; l’ingresso, però, appare impostato al centro della parte absidale, rivolta verso oriente, dove sussistono le due absidiole semicircolari.
     L’ultimo degli abitati scomparsi della zona in esame è S. Leucio, localizzato su un’altura (q. 179) a 300 mt. dalla masseria omonima, 3 Km. a nord-est di Serracapriola. Il luogo era già abitato in età romana e nei pressi sono venute alla luce alcune tombe « alla cappuccina ». Una strada che attraversa il sito sul lato settentrionale ha sezionato dei fossati che contengono vari reperti, tra cui ceramiche medievali dipinte a bande rosse, invetriate e protomaioliche databili fino al XIV secolo, oltre a ciottoli con gocce di invetriatura e frammenti di vasi deformati dalla cottura, che testimoniano l’esistenza di una fornace. Altri reperti, di varie epoche, si trovano nei dintorni, come verso la Murgia Spaccata, una stretta fenditura che porta ad una sorgente nel vallone sottostante.
     Nell’XI secolo vi era una strada da Vena de Causa a S. Leucio, ricordata nella citata donazione a Tremiti della chiesa di S. Pietro in Puliano; altre strade collegavano l’abitato con Serracapriola, Chieuti e, attraverso il Fortore, con Civitate.
     S. Leucio, pur facendo parte della diocesi di Larino, era feudo dei vescovi di Civitate. Il suo territorio, che confinava con Vena de Causa, S. Pietro in Puliano, Pleutum e Serracapriola, raggiungeva ad est il Fortore, mentre a sud doveva arrivare al canale Pisciarello e ad un suo affluente che scende da Colle Castrato (toponimo derivato da un antico insediamento fortificato), fino a raggiungere la strada Vena de Causa-Serracapriola.
     Le vicende riguardanti S. Leucio non differiscono sostanzialmente da quelle dei tanti piccoli centri agricoli della zona e quando tale feudo, nel 1563, viene concesso in enfiteusi all’abbazia di Tremiti, l'abitato era stato già da tempo abbandonato.
     Nell’odierno agro di Serracapriola c’erano altri insediamenti, che esulano dalla presente relazione, come Farato, Casale Alto, Rio Salso e Porticchio, i cui abitanti si trasferirono con molta probabilità nella stessa Serracapriola, un notevole centro di origine protostorica che nel medioevo si era ridotto all’estrema parte meridionale della città antica. Ma, il suo ampio e fertile territorio e la sua dislocazione in un punto strategico che domina due vallate ed una antichissima via di penetrazione verso la Puglia, ripercorsa da strade romane e poi dal tratturo l’AquiIa-Foggia, hanno determinato la sua posizione di predominanza in questa zona di confine, fluttuante fra Molise e Capitanata.

VITTORIO RUSSI