Le tele tessute a mano con il telaio di legno servivano per confezionare tovagliati, lenzuola, sacconi, materassi, e rotoli di fasce per neonati.
 La materassaia, mèterèzzère, ricavava il saccone da un unico pezzo di stoffa e lo cuciva lasciando due piccole aperture per inserire le foglie di granturco, frùsce. Il materasso vero e proprio era costituito da due parti di tela bianca, terlice, a strisce rosse o azzurre, sovrapposte, dopo aver introdotto i fiocchi di lana, e fermate da una fitta orlatura di bottoni bianchi e asole, pertòse. Gabriele Michela, la figlia Luisa e altre copertaie, cupertère, trapuntavano le coperte imbottite di raso damascato o di cotone, satin o rèsètèll
  I primi indumenti del neonato erano: un pannolino, fèscètòre, piegato fra le gambe, fino a coprire il sederino; un panno ruvido, culàzz, su cui si avvolgevano due pesanti tessuti piegati in due, cullèrèll; infine una lunga e resistente fascia, nfèsciànn, copriva il tutto e anche gli arti, per evitare che si storcessero. Restava fuori la testa, coperta da una cuffia di battista o di cotone. Le smorfie di dolore e i pianti esprimevano il disagio del bimbo, concepito da madre natura per muoversirsi. A volte la contadina, per poter lavorare, infilava la sua piccola mummia nel barile, dopo aver asportato uno dei due fondi e zavorrato l'altro. Quando il bambino cominciava a camminare le stesse mamme gli confezionavano i vestitini, vestecèll, o riciclavano quelli che avevano indossato i figli più grandi.
 Le camiciaie cucivano camicie da donna, o da uomo con i colletti staccabili e i polsini che venivano inamidati con cura.
 La maggior parte delle ragazze apprendeva il mestiere della sarta in famiglia o dalle tante mèjéstre che cucivano gli abiti per le grandi occasioni a tutte le clienti del paese. Le donne, vestitissime fin sotto le caviglie, nel 700 indossavano vesti dai corpetti attillati, gonfiate da panièr, pèrèpall, e crinoline.
 Nell'800 gli abiti semplici a vita alta si evolvevano con quelli meno gonfiati, ma con il sedere imbottito. Nei primi anni del 900 le curve diventavano ridondanti con corsetti e bustini di stecche di balena; in seguito il tessuto doveva scivolare sul corpo senza mostrare le curve. Nel 1940 cominciavano a diffondersi i primi tailleur di foggia maschile con spalle imbottite. L'abito che indossavano tutti i giorni le nostre contadine era semplice: una lunga gonna larga, pieghettata, stretta in vita, con un grembiule scuro, un corpetto abbottonato davanti, e sulle spalle un largo fazzoletto, fèzzelettòne, che, all'occorrenza, serviva per coprire la testa.
 I tessuti venivano acquistati nei negozi di Pietro Gatta e dei fratelli Antonio e Alfonso Gatta, pervenuti da Bagnoli Irpino negli anni 1847, 1852. In seguito i figli di Pietro, Lorenzo e Aniello e i figli di Antonio, Lorenzo e Giuseppe continuarono le attività paterne ndà chjèzzèrànn e in via Bovio. Invece D'Abbieri Michelangelo e altri ambulanti, i bègnùlise, richiamavaao l'attenzione delle clienti, battendo sul carrettino, colmo di pezze, il metro, a mèzzè cànn. Gli ultimi commercianti di tessuti a posto fisso furono Merchiori Dante, Forte Romeo, De Leonardis Gaetano, i fratelli Fiorentino.
 Passarsi il mestiere di sarto da uomo di padre in figlio era prerogativa della famiglia Torres. Il capostipite della dinastia dei sarti a Serracapriola fu Marcellino Torres (1776). A lui successero figli, nipoti, pronipoti e il discendente Luigi, che si recò a Napoli per perfezionarsi nel taglio. I suoi figli: Marcellino, Camillo, Carlo e Enrico, Recucc Tòrr, padre di Alberto, ultilmo sarto della famiglia operante in paese, continuarono l'arte della sartoria su misura. Altri discendenti continuano il mestiere a Roma, a Milano, in America. Il laboratorio dei Torres pullulava di apprendisti, i futuri màstre, che vestirono generazioni di serrani: Marinelli Giuseppe, Santagata Raffaele, Gallo Fortunato, Ettore Ferrante, Luigi Giannini, Leonardo Pescatore, Gabriele Cardascia, de Lulli Antonio e tanti altri.
 Con il panno monacino o il casalino abruzzese spighettato si confezionavano il tabarro, un largo pezzo di stoffa, la cappa, a forma di mezza ruota, il dolman a tre quarti di ruota con il cappuccio. Con il biver si otteneva il mantello a ruota. Per il taglio di questo capo, che richiedeva molto spazio, i sarti utilizzavano il pavimento della chiesa di S. Anna. Il paltò, pèllettò, spesso veniva modificato a mo' di pastrano militare, pèlèndrène è use trince. Alcuni emigranti, ritornati in paese dal sud America, si facevano cucire il poncio.
 Il talpo fustagno, detto pèll du diàvele, per la sua durezza, si usava per confezionare abiti e pantaloni da lavoro; il velluto o il fustagno per pantaloni da equitazione e alla zuava. Per i contadini l'abito della festa, che doveva durare tutta la vita e servire per l'ultimo viaggio, era di zigrino. Ma i fiori all'occhiello dello stile su misura Torres, ci dice Alberto nel suo laboratorio, erano il tight e lo smoking di vigogna o drapes. Con un nodo alla gola, ci mostra uno di questi capi e l'ultimo mantello a ruota confezionato da lui nel 1996 per Giannubilo Pietro.
 Fiorentino Fedele, Frèdine, e il fratello Vincenzo sono stati gli ultimi sarti a resistere fino al 1995, quando è cessata l'attività, al boom della confezione industriale che spazzò via sarti e commercianti di tessuti. Avendo capito che il sarto su misura che lavora un capo per volta non è in grado di far concorrenza a produzioni di serie, attrezzarono nel 65 un laboratorio per la confezione di tovagliati e tute sportive e un negozio di biancheria e tessuti. Ma i costi di trasporto per rifornirsi di materia prima e i giganti della confezione tessile hanno soffocato questa piccola attività. Per non essere costretti a diventare, altrove, numeri di una lunga catena di montaggio, i fratelli Fiorentino hanno cambiato mestiere, ma molto tempo dopo di Tartaglia Giovanni, di Paolantonio Gabriele e altri sarti.