La camicina

Gli artigiani tessili si suddividevano in parecchi gruppi, quando l'unico mezzo a loro disposizione era l'abilità delle proprie mani. Dopo aver coltivato la pianta o tosato le pecore, trasformavano il lino, la canapa, il cotone o la lana in materiale adatto alla fllatura e alla tessitura. Altri producevano panni, tessuti, lenzuola, fili, fettucce, corde. I maestri e le maestre del taglio confezionavano capi d'abbigliamento, le magliaie indumenti di lana. Dalle suore si formavano le ricamatrici e le merlettaie. Con il lavaggio, la stiratura e il rammendo della biancheria si completava il ciclo lavorativo di questi artigiani.
 Tentarono la coltura del cotone: in agro di Serracapriola, nel 1860, il duca Nicola Maresca, Presidente del Consiglio a Napoli (1848), negli anni 50 il sig. Domenico Ricci nella tenuta "Grotte", in qualità di amministratore della Società Anonima Fortore corrente in Milano; a Stingo Vecchio, in agro di Lesina, il sig. Antonino Finizio. Ma la coltura di questa pianta tessile ebbe un notevole successo, rispetto ai paesi viciniori, nel territorio di Apricena. Furono coltivate piccole quantità di canapa a Campomarino e Termoli, di lino a Casalpiano, vicino al fiume Saccione. L'esito negativo di questi tentativi conferma da noi l'assenza di tradizione per la coltivazione di piante tessili, che varia a seconda del clima e del tipo di terreno.
 Dopo il raccolto, il cotone, separato dai semi, era già pronto per la lavorazione. La canapa e il lino invece venivano messi a macerare nell'acqua, poi gramolati e infine pettinati per liberare le fibre dalle impurità, e renderle più sottili e parallele. Dopo la tosatura delle pecore, la lana veniva lavata e poi cardata. Questa operazione veniva fatta dalle nostre contadine con due spazzole d'acciaio, che venivano mosse in direzioni opposte, o dai sellai, sùllére, con un attrezzo manuale, chèrdèture. Anticamente si operava con i pettini naturali del cardo, da cui deriva il termine cardare. U schèrdèlène era colui che si dedicava a questo lavoro. Era questo l'appellativo che si dava, per similitudine, a chi indossava abiti dimessi - Père nu schèrdèlène.
 I fiocchi di lana scardassata, dopo una sommaria pulitura, venivano posti sulle spase ad asciugare fino alla filatura.
 Nonostante la diversità di fibre animali e vegetali, la tecnica della filatura era sostanzialmente la stessa. Le fibre venivano ritorte in una prima filatura, che anticamente si faceva a mano. La filatrice, per ottenere un buon filato, doveva:
 - eliminare dalla materia, stopp o chènnèvèll, ogni impurità;
 - tirare e dosare una quantità di materia adeguata alla grossezza del filo, che doveva essere sempre uniforme;
 - torcere in modo equilibrato;
 - fare il minor numero possibile di nodi;
 - fare scorrere bene il filo, che si formava fra le dita, per renderlo liscio ed uniforme.
 È facile immaginare quanta attenzione, pazienza e senso della misura ci voleva per ottenere un ottimo filato. Il tatto delle filatrici era talmente affinato, che anche di notte a lume di candela riuscivano a completare il loro lavoro.
 L'uso del fuso, vertécchje, agevolò questa operazione. Questo attrezzo aveva fogge diverse. C'era il fuso, formato da un unico pezzo di legno tornito, a sezione rotonda, panciuto in mezzo e assottigliato gradatamente alle estremità. Da noi si usava il fuso con rotello (termine specifico inerente al fuso) formato da un'asticella di legno, che aveva un gancio di metallo in alto dove si fissava il filo e in basso un rotello di legno duro tornito (anticamente era di terracotta). La filatrice teneva il fuso in continua rotazione, in modo da torcere il filo più efficacemente. Quando il filo con il fuso si allungava fino al pavimento, s'interrompeva per un attimo la filatura per avvolgerlo e fissarlo di nuovo all'estremità superiore del fuso. Si ricominciava così nuovamente a filare, facendo prillare il fuso su se stesso.
  La rocca o conocchia reggeva le fibre grezze, preventivamente inumidite, che servivano durante la filatura. Poteva essere una semplice forca di legno, una canna o un'asta di legno lavorata. C'era la rocca a mano, lunga 30 centimetri e quella a braccio, lunga circa un metro.
 Solo in una fase posteriore fu introdotto l'uso del filatoio a mano e poi a pedale, a seconda del sistema che muoveva la ruota. In questo strumento di legno il fuso, sistemato in posizione orizzontale non veniva più spinto a mano ma dalla girella che era collegata al fuso attraverso un cavo di trasmissione.
 Oggi la filatura computerizzata ha soppiantato da tempo questi strumenti arcaici. Ma nonostante la diffusione delle fibre sintetiche, la lana e il cotone continuano a fare più che la loro parte per vestire l'uomo. Infatti nel territorio di Apricena, per citare soltanto la nostra zona, nel 1993 si è ritentata la coltura del cotone.