I contadini preparavano a rasele per seminare i pomodori autoctoni, con i semi estratti dai frutti polposi e dalla buccia sottile, prima di passarli al setaccio. Questo lavoro era curato in modo particolare dai nostri ortolani. Poca la produzione ma ottima la qualità. I pomodorini, raccolti acerbi, venivano appesi a grappoli alle spinecristi (vuchéche), i spine sante chi pemmeduritt. Quando maturavano venivano consumati, in genere durante l’inverno, spresscète incoppà a fèll du pène che l’ogghje e sèle. Specie da trasformazione erano i tondini nostrani (i tenéce si mangiavano in insalata con l’olio e l’aglio) o i sanmarzani di origine campana.
La conserva
Per il pomodoro ben maturato cominciava una lunga e attenta trasformazione. I componenti della famiglia, con incarichi diversi, tagliavano a metà i pemmedore. Alcuni li lasciavano prima asciugare all’aria aperta per 24 ore, altri invece li mettevano direttamente a cuocere per circa venti minuti, per poi passarli al setaccio. La salsa ottenuta, ben salata, veniva messa al sole in larghi piatti di terraglia decorata e sui tèvelerèll (apposite tavole che le massaie usavano anche per mandare le pizze al forno). Sistema poco igienico, perché il prodotto, rimestato a lungo ca cucchjère (mestolo di legno) finché non diventava solido, cunsèrve, veniva visitato da nugoli di mosche. La conserva era sistemata, ben pressata (per non creare vuoti d’aria che potevano procurare muffe e deterioramento), in vasi di terracotta mpretenète, fusine o chèndèrèll, e ricoperta da uno strato d’olio prima di chiudere con l’apposito coperchio. C’era anche chi “conservava la conserva” in foglie di granturco disponendola in modo da riprodurre le pannocchie.
La salsa
Con il passar del tempo l’uso della conserva lasciò il passo alla salsa: passata di pomodoro. I frutti venivano cotti nel grosso contenitore di rame, u chècchèvèlle, poi passati al setaccio per liberarli dalla buccia e dai semi. Chi se lo poteva permettere, prendeva in affitto o comprava dal falegname la macchinetta per la salsa. L’artigiano approntava per l’occasione le macchinette di legno con setaccio di zinco, funzionanti con manovelle a mano. A salse veniva versata nelle bottiglie di vetro, dove erano state già infilate alcune foglie di basilico, chiuse poi con un arnese di legno da turaccioli di sughero, stuppele, a base rotonda o quadrata, legati al collo dei contenitori da cordicelle di canapa, curdèlle. Per conservare la salsa ottenuta da pomodori che si potevano macinare crudi o cotti c’era il metodo naturale, bagnomaria (Dal nome di Maria l’Ebrea, sorella di Aronne e di Mosé, leggendaria alchimista) e quello chimico. Quest’ultimo, il più sbrigativo, si attuava conciando la passata con una dose di acido salicidico, a medicine, preparata dal farmacista o dal negoziante, per garantire la conservazione del prodotto.
Dopo la seconda guerra mondiale la preparazione casereccia della salsa di pomodoro e dei pelati in bottiglie con il trattamento a bagnomaria, per sterilizzarli e conservarli, si diffuse in quasi tutte le famiglie del paese. Il prodotto nei contenitori veniva messo a bollire una seconda volta per circa 60 minuti in grossi paioli pieni d’acqua coperti da un telo. Il vuoto d’aria ottenuto nel vetro garantiva la freschezza del prodotto finito.
La produzione industriale della passata di pomodoro con la diffusione dei conservifici non ha eliminato la tradizione dei serrani di farsi la salsa in casa, con l’aggiornamento, però, delle attrezzature ai tempi: le bottiglie da bibite con i tappi di porcellana a pressione, snodati (le cui guarnizioni di gomma venivano cambiate di anno in anno), la macchina macina-pomodori manuale o elettrica di metallo, il fornellone a gas per la bollitura, i tappi di latta a pressione per bottiglie e per barattoli di vetro che potevano contenere la salsa, i pelati, i pomodori a pezzetti, i pomodorini interi.
La commercializzazione
Con l’avvento della coltura intensiva l’industria cominciò a produrre e a vendere tante varietà di semi di pomodoro ai coltivatori. Questi che non potevano più accontentarsi del piccolo fabbisogno familiare seminavano più ettari di terreno proprio o preso in affitto legandosi sempre più alla richiesta industriale che doveva ritirare il prodotto.
Oggi la nuova figura del vivaista, incarnata a Serracapriola da Nicola Ferrero con l’ “Orto levante” in contrada Spinelli, agevola il lavoro del coltivatore che non semina più perché ritira direttamente dal vivaio le piantine di pomodoro da trapiantare nel suo terreno.
L’agricoltore si lega prima alla cooperativa, poi all’associazione che media presso l’industria gli interessi del suo socio. L’industria, dopo aver esaminato l’indagine di mercato sulla commercializzazione del prodotto finito (pelati, concentrati, prodotti per surgela), stila un programma di acquisto con gli agricoltori che provvederanno automaticamente alla trapiantatura con piantine delle varietà di pomodoro ricercate (tondo, PS, pomodorino, ciliegino, lungo, ecc.). L’industria e gli agricoltori firmano un contratto che li lega fino alla consegna del pomodoro, ovviamente nel pieno rispetto delle clausole di contratto. Solo in questo modo il prodotto maturo giunge con sicurezza sui nastri di lavorazione, assicurando la vendita all’agricoltore e la commercializzazione da parte dell’industria come da mercato.
La trasformazione
Citiamo soltanto i conservifici più vicini a Serracapriola.
Al Km 629 strada Statale 16 (Poggio Imperiale –FG-) il conservificio, sorto nel 1982 e rimasto inattivo fino al 1996, è stato poi dato in concessione alla Compagnia Generale Agroindustriale (C.G.A.) s.p.a. Conserve Alimentari, che a tutt’oggi produce un prodotto industriale non da scaffale, pezzettone e super concentrato, in confenzioni che vanno da 10 chilogrammi fino a 13 quintali. La maggior parte del prodotto viene acquistato dalla ditta Petti che provvede a trasformarlo secondo le esigenze di mercato in prodotto da scaffale, il resto viene mandato all’estero.
A Torremaggiore –FG-, oltre al conservificio Tartaglia non più in funzione, un altro abbastanza grande sorto sulla strada che porta a S.Paolo di Civitate, inattivo per parecchi anni, ha riaperto quest’anno con il marchio gruppo Antonino Russo. Gestito da napoletani, ha prodotto lattine di doppio concentrato da 400 grammi “A.R. Industrie Alimentari SpA, via Battimelli 25, -S.Antonio Abate (NA)- ITALY” da esportazione e confezioni di pezzettoni da 20 Kg. Con la gestione di un’altra società ha prodotto anche passato di pomodoro e pelati.
Nel Molise presso Guglionesi (CB) il Conservificio Cooperativo Valbiferno (consorzio di cooperative associate ad ASSOPRO), nato nel 1998, con il marchio POMOLI’ produce cinque tipologie di prodotti, senza conservanti, con diverse grammature: passata di pomodoro, pelati, polpa, polpa a cubetti, pomodorini. Al risultato di questo accurato ciclo produttivo cooperano tutti, compresi i coltivatori. “Le nostre operaie - dice un tecnico dell’industria - non si fanno più la salsa in casa perché consumano il nostro prodotto curato dalle loro mani attraverso la tecnologia moderna che perfeziona la selezione, la sterilizzazione e la conservazione del prodotto”.
Quest’anno sia il raccolto dei pomodori sia il rispetto dei contratti per il ritiro del prodotto da parte dell’industria è andato bene per tutti, soprattutto per i coltivatori che sono i più penalizzati, unicamente perché, esaurite tutte le scorte nei vari depositi a tutti i livelli, c’era necessità assoluta di materia prima. Infatti le voci raccolte da chi ha le mani in pasta (coltivatori e dirigenti di conservifici) sono che…. il più delle volte i contratti servono a ben poco……in pratica si lavora alla giornata.
Nell’agro di Serracapriola hanno coltivato il pomodoro nel 2003: circa 81 ettari, alcuni coltivatori di Torremaggiore, di S.Paolo di Civitate e di Lesina; 90 ettari, Giuseppe Palma e Aldo Cacchione; 30, Lombardi; 25, Giovanni Gallo; 15, i fratelli Tiberi; 15, Giovanni Tiberi; 6, i fratelli Antonio, Fortunato e Raffaele Ruberto; 8, Rino Marini; 4, Annibale Mascolo; 4, Ettore Vaccaro e 4, Davide Galasso. Fuori dal nostro agro: 130 ettari, Gennaro Marinelli; 100, i fratelli Emanuele e Graziano Forte. (L’indagine di questa coltivazione con l’etteraggio non ha carattere ufficiale).
Fatta eccezione per qualche “isola nel deserto” il mercato del pomodoro resta nelle mani dei napoletani che utilizzano i nostri conservifici per trasformare e confezionare il prodotto da commercializzare nella loro zona. È d’obbligo ricordare la più antica impresa conserviera italiana CIRIO (1856), la cui sede, dopo la morte del fondatore (Francesco Cirio) fu trasferita da Torino a San Giovanni a Teduccio alle porte di Napoli, fino alla fine degli anni ’80. La “Salsa di Pomidoro” Cirio veniva pubblicizzata su cartoline, manifesti, e con lo slogan “Come Natura crea Cirio conserva”.
Il codice a barre impresso sul barattolo oggi fa la storia del prodotto finito per poter risalire dal terreno di coltivazione fino alla confezione che arriva sul tavolo della nostra cucina.
In barba all’industrializzazione l’usanza di farsi la salsa in casa è ancora oggi diffusa fra i serrani e gli oriundi in vacanza nel paese natio, i quali prima di ripartire amano preparare, come di tradizione, con pomodori di prima scelta, salsa e pelati per poter gustare poi un buon piatto di pastasciutta tutta serrana con fusille e ricchjetélle della ditta D’Amicis.

Serracapriola 28 ottobre 2003