Serracapriola on line

  l'architettura urbana (da n.1 anno III, n.2 anno III e n.3 anno IIIde "La Portella")

a cura di Giuseppe Gentile    



- Origini;

- Dint'àTèrre;
- I fabbricatori;

- Fòr'è Pòrte;
- Le manomissioni;
- La deformazione;

- Il restauro;
- E allora quale restauro?;

 Soltanto da qualche anno si comincia a dare significato alla parola RESTAURO per ripristinare ("restituire allo stato primitivo" dice il dizionario) l'antico abitato, i monumenti, le opere d'arte di Serracapriola.

 Origini
  ...Oltre l'ipotetica esistenza di una "Rocca Frentana"... quanto diffuse fossero le strutture di età romana intorno a Serracaprioola lo possiamo rilevare tuttora dai toponimi della campagna serrana... in cui il termine "grotta"... di alcune contrade indica la persistenza nel sito di scantinati, di ville o fabbricati rustici romani... che sono stati ormai distrutti. Dai rilievi effettuati è ipotizzabile... che una piccola comunità si sia insediata in quella zona che va dal Castello alIa Chiesa di San Mercurio. Un sostegno indiretto di questa tesi può essere ricavato dall'analisi del sistema viario... attraverso la "greppia di Petronio"...
 Lo stesso nome Serracapriola potrebbe riferirsi al nome di una famiglia... in epoca romana, il cognomen "Capriola" (A. Gravina).

 Dint'àTèrre
 ...Con il terremoto del 1626/27 in paese "non restò forma completa de habitazione, né pietra sopra pietra... Del castello soltanto la torre ottagonale tutta fabbricata a mattoni di taglio non fu toccata in minima parte... Sui colli irti di macerie, iniziò ben presto a nascere la nuova Serracapriola. Il suo primo simbolo monumentale fu Santa Maria in Sylvis. La costruzione fu ultimata nel 1630..." (S.Ricci).

 I fabbricatori
  Sui resti murari fatti per lo più di pietrame cominciarono a sorgere le nuove case. La tecnica costruttiva era "a sacco". Il materiale più comunemente usato era il mattone misto al pietrame nelle costruzioni più antiche e la malta fatta con impasto di terriccio, paglia e calce. I muri erano costruiti a casse-forme sovrapposte. Ogni struttura composta da pietre e malta era delimitata da mattoni. Soltanto quando "il sacco" era ben asciutto "u frèbbechètore" poteva proseguire il lavoro. Erano tempi senza problemi di tempo. I muri perimetrali delle abitazioni, di oltre un metro di spessore ottenuti con la stessa tecnica del muro a secco con l'aggiunta di malta, erano, nelle case più antiche, muri di sostegno per le volte a botte che iniziavano l'arco a 150 centimetri dal suolo. In alcuni casi la volta poggiava su due o quattro archi che si sviluppavano lungo le pareti valorizzati in altezza. Con la diffusione delle fornaci ci fu il trionfo del mattone nel nostro tessuto urbano. Per farsi la casa i contadini andavano dai mattonai a barattare la paglia con i mattoni. La bravura del muratore era determinante non solo per la stabilità della costruzione, ma anche per l'eleganza delle forme, specie delle volte e degli archi ottenuti con una tecnica originale, tramandata di generazione in generazione. Dopo aver costruito i muri perimetrali ed aver innalzato, su quelli frontali, due semiarchi, il Capomastro centinava la volta, che era quasi sempre a botte. I "sbregliòzze" legati a gesso formavano volte a crociera. Il tetto (a cupertine) era costituito da travature in legno poste parallele fra loro e alla distanza di un metro. Tra una trave e l'altra si allineavano ogni venti centimetri in senso trasversale delle traversine di cerro, su cui si poggiavano i mattoni Santa Croce (pienèlle). Infine il tetto, ormai chiuso, veniva definitivamente coperto di coppi (pince).
 Per utilizzare al massimo lo spazio, nelle pareti venivano ricavate delle nicchie. Fra queste non doveva mancare "a vutèrelle", che costituiva l'altarino di famiglia, ricco di statuine e immagini sacre. Il camino (chèntone), simbolo del focolare domestico, era l'indispensabile mezzo di riscaldamento della casa. Poteva impegnare un'intera stanza di circa nove metri quadrati, la cui volta era costituita dalla ciminiera (ciummenére) che man mano si restringeva verso l'alto fino all'apertura del comignolo (casa di Giorgio Castriota, 1876). In genere i camini erano di due tipi: alla monacale e alla campagnola. L'intonaco interno ed esterno della casa era ottenuto con un impasto di terra e calce su cui si passavano infine più mani di calce. Nei bassi, stalle e case povere, specie le volte non venivano intonacate ma soltanto imbiancate a calce; per cui col tempo gli strati sovrapposti di calce lasciavano intravedere le forme dei mattoni, protetti da questo candore ovattato di semplicità verginale. Per fare i cornicioni o le chiavi degli archi centinati sui piedritti dei portali delle case il muratore sagomava, prima con la martellina, poi rifiniva con la raspa e la lima mattoni di mezza cottura inseriti in modanature di legno.
 Un lauto banchetto (chèpechènèle), offerto dal padrone di casa ai muratori, coronava la fine dei lavori.
 I capimastri ci lasciarono la loro testimonianza di bravissimi artigiani nell'antico centro urbano (Dint'à Tèrre) che si espanse verso est fino al palazzo settecentesco dei Duchi Sanfelice.
 Continuano a sfidare i secoli: qualche casa padronale (pèlazze); poche case di un piano (mmonte), alcune con scale e pianerottoli esterni (vegnèle); tanti bassi angusti (bbàsce) dove si dormiva in promiscuità e si mangiava in un unico piatto, mentre dietro al divisorio di legno (tèvelète) il raglio dell'asinello ricordava al contadino il prossimo duro lavoro. Case addossate l'una all'altra in un unico abbraccio di solidarietà con il vicinato. La villa è un'isola autosufficiente.

 Fòr'è Pòrte
 Fuori dalla Portella il paese si estese verso nord. Il Borgo cominciò a popolarsi di palazzotti ottocenteschi dalle volte a crociera, costruiti con la tecnica a sacco "a nguscèture" in uso fino al 1930. Si sviluppò un'ampia e diritta rete stradale delimitata da stabili costruiti di soli mattoni pieni, cellule in contrastate del nostro tessuto urbano. Il novecento lasciò la sua impronta sull'imponente palazzo Pepe, primo esempio di complesso condominiale, e nei due edifici scolastici, ultimi isolati di Corso Garibaldi. Ma la corsa titanica del nostro secolo verso il cielo da noi è stata arrestata dal Piano Particolareggiato del centro storico del 1974 e, definitivamente, dalla legge antisismica del marzo 1981.
 L'esodo della maggior parte dei serrani verso le anonime case popolari e verso i lussuosi palazzi in cemento armato ha svuotato il centro storico con buona parte delle traverse di corso Garihaldi.

 Le manomissioni
 Gli ibridismi, le manomissioni, gli abbattimenti di cose considerate come il simbolo pietrificato della nostra arretratezza, vi sono sempre stati. Dal fossato colmato che recingeva il lato orientale del caslello, all'abbattimento della Porlella nel 1905 "...sia perché minacciava rovina con l'orologio sovrastante e sia perché pareva uno sconcio quell'arco isolato che non aveva alcun pregio né storico. né artistico...(A.deLuca)". Ma ogni complesso urbanistico, dalla catapecchia al monumento artistico, rappresenta un'epoca storica in un tutto armonico. In genere si valorizza la monumenlalità ignorando la caratteristica genuinità della comune abitazione. Ed è come fare la storia occupandosi solo di battaglie e dei matrimoni dei re.
 L'uso indiscriminato di nuovi materiali edili (cemento. rivestimenti plastici,"graffiato" anticorodal ecc.), adatti per le nuove costruzioni, ha deturpato il centro storico. Negli anni trenta dei muratori mentre smantellavano le mattonelle di maiolica dalla cupola della chiesa di San Mercurio, per poterla intonacare, si dice che abbiano esclamato : "Mò stè u cemènte, quìst ne sèrvene cchiù!" Altre manomissioni sono state fatte ad edifici pubblici e privati, a oggetti di culto di ragguanlevole pregio. I muri delle vecchie case di oltre un metro di spessore possono continuare a vivere, traspirando ancora a lungo, con i propri mattoni a faccia vista, senza essere violentati da inutili rivestirnenti plastici dai co!ori pacchiani.
 La frenesia del nuovo, del lucido, del liscio. ha contagiato tutti, specie coloro che soffrivano la fame nei fatiscenti bassi dove il mattone, la calce, il legno, il ferro, rappresentanti del passato, vengono rifiutali a vantaggio dei nuovi materiali, simboli del benessere liberatorio.
 Oltre agli atti di vandalismo perpretrati ai danni delle massicce panchine di pietra, alla scomparsa delle fontane comunali, sono stati barattati interi portali di pietra completi di porte in legno massello con ingressi di alluminio anodizzato (...ène chègnète l'occhje pà còde...).
 Ha coronato il cattivo gusto, nel centro storico l'installazione di ibridi lampioni moderni e in corso Garibaldi l'abbattimento dell'illuminazione, riprislinata poi, dall'Amministrazione Mascolo. In pochi anni Serracapriola ha fatto da vetrina a ben cinque modelli di lampioni stradali, fari esclusi. E un bel primato che fa onore alla dissipazione.

 La deformazione
 Il pregio della noslra architettura tradizionale (come dice Eglo Benincasa) sta nella modulazione delle linee che anima i volumi. Questa deformazione può sembrare un difetto nella disposizione delle vie, delle piazzette, delle scalinate esterne, "vegnèle", dei muri di "sbregliòzze", dei tetti di "pince", ma questo apparente disordine crea la regolarità e l'armonia dell'ordine; il ritmo poetico dei pieni e dei vuoti dove ogni via, ogni casa ha una sua personalità.
 La deformazione non si può progettare in anticipo. Bisogna toccare il materiale e fare la scelta volta per volta, mettendo in risalto le particolari virtù di queste pietre e mattoni per le case e delle basole per le strade, sfruttandone i difetti e le imperfezioni. Bastava osservare, nel giugno 1990, i basolai napoletani che restauravano la basolatura di via XX settembre per rendersi conlo di questa verità. E sempre il limite che è fecondo, trovarsi a dover utilizzare il materiale che si ha a disposizione sul posto. Anche un muro sbrecciato ci dà una deformazione, ma di origine naturale che crea un'armonia d'insieme. Le usure che rendono belle ed eterne le vecchie case sulle superfici molto lisce degli edifici moderni spiccano nette e stridenti. La vera linea delle cose ha un'anima palpitante di curve infinitamente complesse. Perfino il mattone fatto a mano, di per sé deformato, si sapeva disporre in semplici e vibranti linee di deformazione. 0ggi la deformazione genuina la si trova ancora in pittura non più in architettura.

 "...Le vecchie case dalla fisionomia pacata, in tono minore, di cose fatte per durare indefinitivamente. Non frenesia e vertigine, e stanchezza successiva, ma gaiezza riposata. Basta rifarsi alle chiese romaniche per capire la regalità della casa. Un canone umile e francescano. Il canone mediterraneo. La ricercatezza, la raffinatezza,la distinzione sono un veleno per l'Arte. Perde la sua fresca innocenza se aderisce alla perizia tecnica, a una moda, o al lusso delle dimensioni e dei materiali. La POVERTÀ È CAUSA DI BRUTTEZZA SOLO IN QUANTO UNO SE NE VERGOGNI Ci sono delle brutte reggie e dei bellissimi trulli, delle stupende capanne di canne. La bellezza non costa più della bruttezza. Anzi di solito si spendono più quattrini per la bruttezza che per la bellezza. San Francesco ha rivalutato e laudato la pietra, la terracotta, l'intonaco, dove si riteneva appropriato solo il marmo, ha sostituito l'umile affresco al regale mosaico e la terracotta smaltata al lusso degli ori. Oggi bisogna riconoscere i limiti inevitabili ma benedetti della realtà. Senza di essi siamo preda della DISSIPAZIONE. Non QUANTO PIÙ' TANTO MEGLIO, ma QUANTO MENO TANTO MEGLIO che è il fondamento ascetico di ogni vera civiltà..."(Pensieri di Eglo Benincasa).

  Il restauro
 Da qualche tempo sicomincia a sentire la poesia intensa di restaurare le vecchie case.E' bene riscoprire e custodire gelosamente questo patrimonio inestimabile, testimonianza di un'architettura ancora a misura d'uomo. Il suo recupero però è reso difficile dalla cattiva applicazione delle leggi per la tutela del paesaggio. I piani particolareggiati delle zone d'interesse storico dell'architetto Sara Rossi approvati nel 1977 regolarizzarono, in parte solo teoricamente, gli interventi sulle vecchie costruzioni. Essi sono suddivisi in due zone , comprendenti:
 - A1 CENTRO STORICO nella parte di più antica origine.
 - A2 CORSO GARIBALDI e aree adiacenti.
 Nella zona A1 non è ammesso nessun ampliamento dei fabbricati esistenti, ma solo manutenzione straordinaria e conservativa. Questi stessi vincoli sono validi anche per gli stabili prospicienti sul Corso Garibaldi. Le finiture esterne degli edifici debbono rispettare con il massimo rigore possibile le caratteristiche ambientali delle aree storiche circostanti. Dove ci sono delle murature di mattoni pieni ci deve essere il rinvenimento a faccia vista, altrimenti saranno ad intonaco rustico o ad intonaco tinteggiato. I colori ammessi sono: il bruno spento, il bianco, il grigio chiaro, il terra diSiena chiaro. Qui si cade nell'equivoco. Per cui ognuno crede di essere nel diritto di dare libero sfogo al capriccio di intonacare e colorare la propria abitazione con materiali plastici in netto contrasto con la storia e la struttura dello stabile. Infatti dopo un po' di tempo c'è l'inevitabile rigetto (vedi la chiesa della Trinità e altri immobili del centro storico).

 E allora quale restauro?
 È semplice. Si fa per dire. "Un canone umile e francescano". Nel restauro entra la manualità regale dell'artigiano-muratore che usa con intelligenza i materiali tradizionali riciclabili, ma anche con molta, molta circospezione i materiali moderni per sopperire alle esigenze del momento. Dove non è possibile il rinvenimento a faccia vista dei mattoni, da lasciare allo stato naturale, l'unico intonaco esterno adatto alle vecchie abitazioni è quello rustico "sguazzo" dove deve trionfare la "deformazione" dal colore naturale del materiale usato. Soltanto il tempo può dare la patina giusta sia ai mattoni a faccia vista che all'intonaco rustico. Questo tipo di restauro è a basso costo,perché dura nel tempo e non ha bisogno di manutenzione. Sono da escludere gli intonaci uniformi, lisci, plastificati e colorati.
 Oltre al castello ben tenuto dal duca Antonino Maresca, alcune case nel centro storico, in corso Garibaldi, e le facciate di parecchi negozi, sono state ben restaurate con il rinvenimento dei mattoni a faccia vista. Eredi dei vecchi capimastri, i nostri muratori sono gli artefici di questi splendidi restauri. Siamo certi che essi tramandano ai loro apprendisti oltre alla tecnica del cemento armato anche l'arte del restauro dei vecchi stabili. Ma la crisi dell'artigianato che coinvolge anche questo settore può spezzare questa catena. Già alcuni giovani a malincuore hanno abbandonato il paese per trovare lavoro altrove.
 Sono state ben ripristinate anche via Bovio già Grande, via Cairoli e via XX Settembre, detta "De'Zincàri" già dal 1753, perché, da quartiere periferico, accoglieva nomadi e forestieri. Questa strada, la più larga del centro storico, con sbocco a Porta Bianchini, pullulava di botteghe artigiane e negozi. Nel 1990 meritava di essere restaurata da una squadra di vecchi artigiani napoletani, specialisti nel trattare il loro materiale "le pietre del Vesuvio" (bàsele). Usavano il maglio, la mazzetta, la leva; il capomastro, artigiano-architetto, una funicella ( à zùchèrèlle) a mo' di metro. Pochi mezzi, ma tanta, tanta esperienza.

 Le nostre strade sono caratterizzate da lastricature di basole laviche e "bianchini". Pietre resistentissime, introvabili, che potevano essere depositate, dopo il rifacimento in porfido di piazza V. Emanuele, per riutilizzarle, nel tempo, a restauro. Ma oggi l'ottimo usato si getta o si dà in "beneficenza". In caso di necessità (lo diciamo ai posteri?) le basole potranno essere riesumate nel vallone "don Ciccio" dove si trova la loro fossa comune.
 Conservare per riutilizzare: questo è il restauro. Ilcemento armato è nocivo perchè non è riciclabile.